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Questioni di tattica

La presente, incerta, tormentata, instabile situazione politico sociale dell’Europa e del mondo, che dà luogo a tutte le speranze ed a tutti i timori, rende più che mai urgente il bisogno di tenersi pronti per i più o meno prossimi, ma immancabili rivolgimenti. E perciò si ravviva la discussione, del resto sempre attuale, del modo come adattare le nostre aspirazioni ideali alla realtà contingente dei vari Paesi, e passare dalla predicazione ideale alla pratica realizzazione.
E, come è naturale in un movimento qual è il nostro, che non riconosce autorità di uomini e di testi ed è tutto fondato sulla libera critica, varie sono le opinioni e varia la tattica seguita.
Così, alcuni dedicano tutta la loro attività a perfezionare e predicare l’ideale, senza poi troppo guardare se sono compresi e seguiti e se quell’ideale sia o no applicabile nello stato attuale della mentalità popolare e delle esistenti risorse materiali. Essi, più o meno esplicitamente ed in gradi che variano da persona a persona, restringono il compito degli anarchici, oggi alla demolizione degli attuali istituti oppressivi e repressivi, domani alla vigile sorveglianza contro il costituirsi di nuovi governi e nuovi privilegi, trascurando tutto il resto, che è poi il grave, ineluttabile ed improrogabile problema della riorganizzazione sociale sopra basi libertarie. Essi credono, per quel che riguarda i problemi di ricostruzione, che tutto si accomodi da sé, spontaneamente, senza preparazione precedente e senza piani prestabiliti, grazie ad una mitica capacità creativa della massa, o in forza di una pretesa legge naturale per la quale, non appena eliminata la violenza statale ed il privilegio capitalistico, gli uomini diventerebbero tutti buoni ed intelligenti, sparirebbero subito gli antagonismi di interessi, e l’abbondanza, la pace, l’armonia regnerebbero sovrane nel mondo.
Altri invece, animati soprattutto dal desiderio di essere, o sembrare pratici, preoccupati dalle prevedibili difficoltà della situazione all’indomani della rivoluzione, consci della necessità di conquistare l’adesione del grosso pubblico, o almeno di vincerne le ostili prevenzioni causate dall’ignoranza dei nostri propositi, vorrebbero formulare un programma, un piano completo di riorganizzazione sociale, che rispondesse a tutte le difficoltà e potesse soddisfare quelli che, con frase tradotta dall’inglese, hanno preso a chiamare «l’uomo della strada», cioè l’ uomo qualunque che non ha partito preso, non ha idee determinate, giudica a volta a volta secondo che è ispirato dalle passioni e dagli interessi del momento.
Da parte mia, credo che gli uni e gli altri hanno la loro parte di ragione e la loro parte di torto; e che, se non fosse la malaugurata tendenza all’esagerazione ed all’ esclusivismo, le due opinioni potrebbero contemperarsi e completarsi l’una con l’altra per adeguare la nostra condotta alle esigenze dell’ideale ed alle necessità della situazione, e raggiungere così la massima efficienza pratica, pur restando strettamente fedeli al nostro programma di libertà e giustizia integrali.
Negligere tutti i problemi di ricostruzione, o prestabilire piani completi ed uniformi sono due errori, due eccessi, che per vie diverse menerebbero alla nostra sconfitta in quanto anarchici ed al trionfo di nuovi o vecchi regimi autoritari. La verità sta nel mezzo.
È assurdo il credere che, abbattuti i governi ed espropriati i capitalisti, «le cose si accomoderanno da sé», senza l’azione di uomini che abbiano un’idea preconcetta sul da farsi e si mettano subito all’opera per farlo. Forse ciò potrebbe accadere – e magari sarebbe preferibile che così accadesse – se si avesse il tempo di aspettare che la gente, tutta la gente, trovasse modo, provando e riprovando, di soddisfare nel miglior modo i propri bisogni e i propri gusti, d’accordo con i bisogni e con i gusti degli altri. Ma la vita della società, come la vita degli individui, non ammette interruzioni. L’ indomani immediato della rivoluzione, anzi il giorno stesso dell’ insurrezione, bisogna provvedere all’ alimentazione ed agli altri bisogni urgenti della popolazione, e quindi occorre assicurare la continuazione della produzione necessaria (pane, ecc.), il funzionamento dei principali servizi pubblici (acqua, trasporti, elettricità, ecc.) e lo scambio ininterrotto tra le città e le campagne.
Più tardi le maggiori difficoltà spariranno: il lavoro organizzato direttamente da coloro che realmente lavorano diventerà facile ed attraente, l’abbondanza della produzione renderà inutile ogni calcolo sul rapporto tra prodotti fatti e prodotti consumati e ciascuno potrà davvero «prendere nel mucchio» quello che gli piace; le mostruose agglomerazioni cittadine si dissolveranno, la popolazione si distribuirà razionalmente su tutto il territorio abitabile, ed ogni località, ogni raggruppamento, pur conservando ed aumentando a beneficio di tutti tutte le comodità fornite dalle grandi imprese industriali e pur restando legato a tutta l’umanità per sentimento di simpatia e di solidarietà umane, potrà in generale bastare a se stesso e non essere afflitto dalle opprimenti e dispendiose complicazioni della vita economica attuale. Ma queste, e mille altre belle cose che si possono immaginare, riguardano l’avvenire, mentre ora urge pensare al modo di vivere oggi, nella situazione che la storia ci ha tramandata e che la rivoluzione, cioè un atto di forza, non potrà cambiare radicalmente, da un giorno all’altro, come con un colpo di bacchetta magica. E poiché, bene o male, bisogna vivere, se noi non sapremo o non potremo fare il necessario, lo faranno altri con scopi e risultati opposti a quelli a cui miriamo noi.
Non bisogna trascurare «l’uomo della strada», che è poi in tutti i Paesi la grande maggioranza della popolazione, e senza il cui concorso non v’è emancipazione possibile; ma non bisogna neppure fare troppo affidamento sulla sua intelligenza e sulla sua capacità d’iniziativa.
L’uomo ordinario, «l’uomo della strada», ha molte ottime qualità, ha immense potenzialità che danno sicura speranza ch’esso potrà un giorno formare l’umanità ideale che noi vagheggiamo; ma esso ha intanto un grave difetto che spiega in gran parte il sorgere ed il persistere delle tirannie: esso non ama pensare, ed anche nei suoi conati di emancipazione segue sempre più volentieri chi gli risparmia la fatica di pensare e prende su di sé la responsabilità di organizzare, dirigere… e comandare. Esso, purché non lo si disturbi troppo nelle sue abitudini, è soddisfatto se altri pensa per lui e gli dice quello che deve fare, anche se a lui non resta che il dovere di lavorare e di ubbidire.
Questa debolezza, questa tendenza della folla ad aspettare e seguire gli ordini di chi si mette alla sua testa, ha mandato a male tante rivoluzioni e continua ad essere il pericolo che minaccia le rivoluzioni prossime future.
Se la folla non fa da sé e subito, bisogna bene che provvedano al necessario gli uomini di buona volontà, capaci di iniziativa e di decisione. Ed è in questo, cioè nel modo di provvedere alle necessità urgenti, che dobbiamo distinguerci nettamente dai partiti autoritari.
Gli autoritari intendono risolvere la questione costituendosi in governo ed imponendo con la forza il loro programma. Essi possono anche essere in buona fede e credere sinceramente di fare il bene di tutti, ma in realtà, ostacolando la libera azione popolare, non riuscirebbero ad altro che a creare una nuova classe privilegiata interessata a sostenere il nuovo governo, ed in sostanza a sostituire una tirannia con un’altra.
Gli anarchici devono bensì sforzarsi di rendere il meno faticoso possibile il passaggio dallo stato di servitù a quello di libertà, fornendo al pubblico il più possibile di idee pratiche ed immediatamente applicabili, ma debbono guardarsi bene dall’ incoraggiare quell’inerzia intellettuale e quella tendenza a lasciare fare agli altri ed ubbidire, che abbiamo lamentate.
La rivoluzione, per riuscire veramente emancipatrice, dovrà svolgersi liberamente in mille modi diversi, corrispondenti alle mille diverse condizioni morali e materiali degli uomini d’oggi, per la libera iniziativa di tutti e di ciascuno. E noi dovremo suggerire e realizzare il più possibile quei modi di vita che meglio corrispondono ai nostri ideali, ma soprattutto dobbiamo sforzarci di suscitare nelle masse lo spirito d’iniziativa e l’ abitudine di fare da sé.
Noi dobbiamo evitare anche le apparenze del comando, ed agire con la parola e con l’esempio come compagni tra compagni; e ricordarci che a voler troppo forzare le cose nel senso nostro e far trionfare i nostri piani, correremmo il rischio di tarpare le ali alla rivoluzione ed assumere noi stessi, più o meno inconsciamente, quella funzione di governo che tanto deprechiamo negli altri.
E come governo noi non varremmo certamente meglio degli altri. Forse anche saremmo più pericolosi per la libertà, perché convinti fortemente di aver ragione e di fare il bene, saremmo inclinati, da veri fanatici, a considerare quali contro-rivoluzionari e nemici del bene tutti quelli che non pensassero ed agissero come noi.
Ché se poi quello che gli altri fanno non fosse quello che vorremmo noi, la cosa non avrebbe importanza, sempre che fosse salvaguardata la libertà di tutti.
Ciò che veramente importa è che la gente faccia come vuole, perché non vi sono conquiste assicurate se non quelle che il popolo fa coi propri sforzi, non vi sono riforme definitive se non quelle reclamate ed imposte dalla coscienza popolare.

Errico Malatesta

«Almanacco libertario», Ginevra, 1931

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