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Qualcosa da dire

Ritorniamo un po’ più a freddo sull’occupazione dei locali dell’ex oviesse a Teramo. Ci ritorniamo dopo che, a caldo, già avevamo espresso delle prime impressioni e ci ritorniamo soprattutto per vedere, possibilmente, se ci si può cacciare qualcosa di buono, anche da questa situazione.

Perché porci in quest’ottica?

Un primo motivo è che il ruolo di giudici, di coloro che puntano il dito, per dimostrare poi quanto loro, e solo loro, siano belli e bravi, non ci piace. Non solo non ci piace, ma questo modo di fare non lo consideriamo minimamente rivoluzionario. E chi legge le pagine di questo blog può rendersene conto, così come può rendersene conto chi prima ci seguiva sul cartaceo. Certo è che, a volte, abbiamo espresso le nostre critiche, anche caustiche, ma solo ed esclusivamente per rimarcare il marcio in situazioni che, per noi, avevano un potenziale. Per non permettere, in poche parole, al marcio di far sfumare e deteriorare il potenziale che una situazione offre. Detto ciò, possiamo capire perché ora può risultare interessante parlare dell’occupazione dei locali dell’ex ovviesse da un altro punto di vista: per capire quello che può offrirci, se ha qualcosa da offrirci. Ovviamente queste riflessioni non entrano in contraddizione con le righe del nostro primo articolo a riguardo (che abbiamo prima ricordato), perché, lo ribadiamo, quelle riflessioni riguardano la struttura con cui l’occupazione è partita.

Nel frattempo che è successo? Cos’è cambiato?

Niente, verrebbe da dirci. Ed in fondo è vero. Se non fosse che, molte persone di buon cuore (come direbbe il vecchio e caro Malatesta) che conosciamo anche personalmente, si stanno facendo prendere bene da questa situazione. E li capiamo, invischiati un po’ tutti come siamo in questa realtà (di provincia a maggior ragione) annichilente e ripetitivamente noiosa. Li capiamo ma, come si dice, non li condividiamo. Vuoi perché limitarsi al discorso artistico non ci stimola, anche se ben venga che ci sia, se fatto sinceramente con la riappropriazione e per chiunque non può assistere allo spettacolo-merce. Anche se, dobbiamo dirlo, dietro il semplice paravento artistico chiunque può esprimersi, ed è bene ed ovvio che sia così, ma ciò può farci trovare spalla a spalla col peggior schifo umano: un autoritario, un sessista o un fascista, per dirne qualcuna. Come accaduto ad esempio nell’assemblea pubblica dell’occupazione, di qualche giorno fa, il cui oratore, un noto fascista culturalmente accettato dalla cittadinanza, è stato acclamato dal pubblico presente e dagli occupanti. È un artista, purché sia artista ben venga, ripete il mantra dell’occupazione. È comprensibile che ciò può creare qualcosa di più si un semplice problemino…  Ma tornando al nostro discorso, dicevamo che capiamo quelle donne e quegli uomini di buon cuore che si stanno dando da fare in quei locali per il corso di Teramo, ma non li condividiamo, perché li immaginiamo come una réclame in cui in sovraimpressione compare la scritta: stiamo lavorando per voi. Ed il voi, non siamo noi tutti, ma gli organizzatori dell’occupazione e di chi ne muove i fili. Di coloro che, tanto per capirci, alla fine raccoglieranno i frutti di questa esperienza. Non li condividiamo, in sintesi, perchè stanno lavorando, anche ingenuamente ed incoscientemente, per dei personaggi che hanno un disegno ben netto in mente, fatto di metodi, contenuti e fini del tutto simili alla società che ci fa ribrezzo.

Dove ci porta il nostro discorso?

È ben triste la realtà, dicevamo. E chi ha degli stimoli, degli impulsi perché non dovrebbe lanciarsi in questa esperienza, visto che non ha alternative? Basta guardarsi un minimo attorno infatti per rendersi conto che la nostra realtà locale non offre un contradditorio pratico, non offre esperienze autogestionarie e di riappropriazione che sappiano criticare, nei fatti, coi fatti, l’inganno della situazione all’ex ovviesse. Checché ne dica la bile di chi sta facendo comunicati rancorosi, per rivendicare la scena persa sul proscenio culturale cittadino. Sappiamo, senza ombra di dubbio, che un’occupazione è altro. Non è intrigo politico, non è strumentalizzazione elettorale, non è comunicazione con le istituzioni, non è propaganda con i giornalisti, non è affidamento sull’operato dei tutori dell’ordine. Non è il luogo dove poter vendere la propria merce, anche culturale. Ne’ il luogo da cui rivendicare la propria arte, per essere riconosciuta dal mecenate di turno. Un’occupazione è soprattutto riappropriazione, senza permessi, senza concessioni. E’ espressione, senza l’approvazione e l’applauso del padrone di turno. E’ riprendersi ciò di cui si ha bisogno e ciò che si vuole, senza mettersi ad esempio in coda ad uno sportello dei servizi sociali del comune, in attesa di un’assegnazione che quasi mai arriva. E’ una soluzione al problema casa che migliaia di persone vivono ed una risposta pratica alle barbarie che i governanti compiono, come ad esempio le cento persone senza tetto sbattute fuori, di notte, al gelo, dalla stazione di Pescara qualche giorno fa. E’ la sopravvivenza da un mutuo che ci stritola o la salvezza da una rapina chiamata affitto. E’ la possibilità di poter creare situazioni, senza aver timore di subire minacce e sanzioni per non aver rispettato il regolamento. E’ il luogo dove poter discutere delle problematiche che viviamo, affrontarle, trovarne soluzioni, creare situazioni di lotta. E’ dove poter portare avanti una socialità diversa, che non sia dettata dai canoni del consumo e della merce. E’ dove potersi rapportare con i nostri simili non in base ai valori gerarchici che la società impone, ma in base all’orizzontalità, all’uguaglianza, all’unicità di ognuno, alla reciprocità, al mutualismo. Un’occupazione é soprattutto conflitto, scontro, barricata contro il potere. Non una sua riproduzione. Ma, a conti fatti, bisogna riconoscere anche che con la situazione all’ex ovviesse si è tornati a parlare, pubblicamente, di occupazione e riappropriazione. E da questo si può ripartire, se abbiamo veramente qualcosa da dire, se abbiamo veramente qualcosa da voler fare.

Posted in critica radicale.

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