La data del 4 dicembre si avvicina e ne avremmo fatto volentieri a meno. E, sostanzialmente, ne faremo a meno.
Perché, dai referendum ed altre diavolerie, rifuggiamo come da qualunque altro strumento del potere teso a recuperare ed a portare sul piano del dibattito istituzionale le mobilitazioni che vi sono sul territorio. A maggior ragione ne rifuggiamo nel caso di questo referendum, nato proprio negli scranni del potere ed in seno ad essi che si gioca la partita in questione. Partecipare a tale dibattito quindi, non può che significare scendere (nel vero senso della parola), abbassarsi, al livello stesso del potere, ai suoi dibattiti, alle sue diatribe interne, ai suoi giochetti meschini. Perché, diciamoci la verità, a molti che andranno a votare, poco importa e forse anche poco conoscono, nel merito, la riforma oggetto della consultazione del 4 dicembre. Infatti il NO che verrà espresso al riguardo, sarà perlopiù sinonimo di un NO politico all’attuale governo, o meglio, un NO contro il suo attuale rappresentante. Perché l’attuale forma di governo, stando così le cose, e vedendo il fronte variegato che parteggia per il NO, si perpetrerà sicuramente ben oltre la consultazione della prossima settimana.
Se queste righe non rappresentano certo una novità per quanto concerne una “lettura” sul prossimo referendum, tocca interrogarsi, compagni e compagne e chi in generale non glie la fa più di questi teatrini, su come riuscire a riportare il livello della discussione e, perché no, dello scontro su piani a noi più congeniali. Su istanze proprie. A non rincorrere sempre dibattiti e terreni calati dall’alto, ma cambiare totalmente prospettiva. Decidere, in poche parole, di cosa parlare, con chi e mettere in campo pratiche per cui questa dialettica prenda forma.
In tale ottica si concentra la parte più interessante di questo ragionamento e della critica che si fa, in questo caso ad esempio, al referendum del 4 dicembre. Perché se le cose che diciamo sono vere e, tutto sommato ovvie, la domanda da porsi è: “riusciamo a costruire percorsi in autonomia?”
Perché altrimenti il rischio che si corre è quello di dispensare lezioni e dare giudizi. Rischio in cui, molto spesso, cadiamo senza però riuscire a dare o cercare di formulare risposte. E senza riuscire a rispondere, ed è ancor più difficile, nei fatti, coi fatti.
Visto quindi che ci provocano un certo prurito gli strumenti istituzionali, finanche quelli referendari, dovrebbero crearci la stessa sensazione situazioni che hanno molto di simile con l’accademia e col tribunale, per cui, da uno scranno si dice il giusto e lo sbagliato, quello che si deve e non si deve fare. Un fastidio dovuto, non tanto perché si giudicano delle situazioni, ma proprio perché lo si fa da uno scranno. Che è il principio di ogni potere ed è proprio questo il principio da combattere.
Chiarito ciò non resta che interrogarsi, con tutti quegli uomini e quelle donne che vogliono cambiare questo stato di cose, sul quesito che ponevamo poco fa: “Riusciamo a costruire nostri percorsi?”
Innanzi tutto dovremmo capire su quali piani intervenire. Ognuno avrà al riguardo proprie istanze e proprie priorità su cui imbastire un discorso. Da tematiche più “specifiche”, basti pensare alle problematiche connesse al razzismo dilagante, alla casa, al lavoro, alla mancanza di assistenza sanitaria, alla difesa del territorio. A discorsi più “ampi” di critica radicale dell’esistente. E non è detto che queste visioni, questi “approcci” non possano coesistere o, perlomeno, non trovare dei punti di connessione. Ma il punto non è tanto questo, perlomeno in questo scritto. Il punto è: in qualunque delle tematiche accennate (e ve ne sono molte altre ovviamente) vi è una visione di come “intervenire”? Vi è un’analisi, un progetto e, una volta avviato, vi è un percorso?
Abbiamo in mente cosa vogliamo o cosa vorremmo dalle situazioni che costruiamo? Consideriamo i vari passaggi che mettiamo in campo, come affrontarli, cosa apportano e cosa levano al percorso di lotta? Abbiamo in mente chi sono o chi potrebbero essere i nostri complici? Quale rapporto e quale “comunicazione” avere con loro?
E, soprattutto, vi è la voglia di mettersi in gioco?
Perché senza questo presupposto non vi è lotta che possa avere inizio, non vi è cambiamento della società che possa avvenire.
A queste domande dovremmo iniziare a dare delle risposte se non vogliamo rimanere nell’accademia del giudizio. Risposte non certo facili, ma che presuppongono un buon punto di partenza se pensiamo che sia il momento di dire basta a rincorrere la dialettica, la narrazione e le situazioni del potere. Risposte impellenti per chi crede che, solo con l’autonomia delle lotte, si riesca non solo a cambiare le cose, ma si riesca ad uscire dalle sabbie mobili delle derive istituzionali e legalitarie, nelle quali ogni giorno veniamo sempre più risucchiati.
Chiunque vuole partecipare al dibattito e/o inviare un contributo può farlo alla nostra mail: laraje@autistici.org
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