Il mese di novembre si sta caratterizzando, tra le varie mobilitazioni, per le manifestazioni studentesche. Un po’ ovunque per il paese vi sono state autogestioni, occupazioni, cortei e, in alcuni casi, scontri con le forze dell’ordine. Ma ciò che più sembra aver destato entusiasmo attorto a tali mobilitazioni è la partecipazione che esse hanno saputo attirare. Se infatti è vero che autogestioni degli istituti scolastici sono un po’ una consuetudine nel periodo pre-natalizio, non è consuetudine che i cortei studenteschi siano così affollati di persone. Questo risultato, riscontrato ad esempio anche in Abruzzo, è stato accolto positivamente dai più e, senza dubbio, è un buon risultato.
Ma oltre l’aspetto prettamente numerico, oltre l’aspetto prettamente quantitativo, queste mobilitazioni cos’hanno prodotto, che stanno producendo?
Iniziamo il discorso seguendo un filo logico, così che possiamo cercare di capire in che situazione ci troviamo e che possibilità ci offre.
Le mobilitazioni studentesche partono a causa del “solito” disegno di legge che consegna sempre più le scuole ai privati e fa della scuola stessa un’azienda. Stavolta il ddl porta il nome Aprea, ed altro non è che il proseguimento delle politiche degli ultimi anni, finalizzate allo smantellamento della scuola pubblica per gli scopi prima menzionati. Quest’ultima frase non è certo da parte nostra una difesa della scuola pubblica, ma una semplice constatazione dell’operato politico.
Alle rimostranze degli studenti, stavolta, si sono aggiunte anche quelle dei docenti e quelle di tutti coloro che con la scuola portano a casa la pagnotta. Anche qui il copione sembra ripetersi. E si ripete il copione che coinvolge tutto il mondo del lavoro, che coinvolge tutti i lavoratori alle prese con la crisi imposta dai padroni e alle prese con le loro ricette di austerità: ridimensionamento e riduzione d’organico, un contratto di lavoro bloccato ormai dai tempi pre-crisi, precariato e insicurezza per i più, che poi non è detto che siano i più giovani. In poche parole anche i professori lamentano il fatto che possono perdere il lavoro. Lamentano che, per chi cerca un’occupazione nella scuola, diventa sempre più astruso e difficile trovarla, e, per chi tale occupazione ce l’ha, deve accontentarsi di un salario che non va al passo con le spese che chi governa impone.
Ecco quindi un primo motivo della riuscita numerica delle mobilitazioni studentesche: molte autogestioni e occupazioni delle scuole sono avvenute anche grazie all’appoggio dichiarato dei docenti, che hanno spianato la strada alla gioventù.
Chissà che qualche professore non abbia sfruttato la gioventù per le proprie rivendicazioni di pagnotta …
Sta di fatto che molte autogestioni, molte occupazione sono state autorizzate, non solo da un punto di vista legale, ma anche e soprattutto, da un punto di vista morale dall’ambiente scolastico.
E qui vi è un primo neo della vicenda: la rottura necessaria che presuppone un’occupazione è un primo passo d’emancipazione, di messa in discussione dell’apparato, è un primo passo di lotta. Nel momento in cui un’occupazione è concessa, non è più un’occupazione, o meglio, è solo un’occupazione concessa. Quest’ultima non ha niente a che vedere con la riappropriazione, con la responsabilità del gestirsi e del decidere sul da farsi; non ha niente a che vedere con lo scontro con l’istituzione che quell’edificio vuole imporci.
Ci si dirà: “ma gli studenti non volevano mica contestare l’istituzione scolastica, volevano solo salvaguardare l’istruzione pubblica dalle grinfie dei privati e delle aziende”. Bene, ma la scuola è pur sempre il riflesso della struttura di governo, un’istituzione statale, espressione delle decisioni governative. Qualora non si volesse arrivare al punto di rendersi conto della sua totalità e della sua funzione oppressiva, si può, ben più banalmente, rendersi conto che bloccare essa (occupandola ad esempio), vuol dire cercare di bloccare una decisione che la riguarda, che viene presa in quel momento dal governo. Per questo un’occupazione che ha rivendicazioni parziali, come in questo caso, ha senso se fatta in determinati momenti. Ma se neanche questo momento viene preso, perché ci si accontenta che venga concesso in dote dai professori, come si può pensare che le voci abbiano un peso? Come pensare che le rivendicazioni, seppur parziali, possano avere risultati? Come si può pensare di poter decidere le proprie sorti?
A questo discorso ha fatto seguito quel che poi si è tramutato nei cortei. Si è vero, in diverse parti ci sono stati scontri con le forze dell’ordine, ma il più delle volte è stata una caccia all’uomo messa in pratica dagli sbirri. Si è vero, in molte parti c’è stata la vernice a coprire le facciate delle banche. Ma quel che è sembrato mancare è stata quella rabbia che caratterizzava ad esempio i cortei del 14 dicembre di due anni fa o del 15 ottobre dell’anno scorso.
E questo perché? Perché, a nostro avviso ovviamente, si è scesi in strada non venendo da una scuola che era stata presa, da un professore che era stato mandato a fanculo, o dai turni nelle scuole occupate per controllare l’arrivo degli sbirri. Si è scesi in strada (non in tutti i casi ovviamente), da una scuola che era stata concessa, da un professore che chiedeva agli studenti di partecipare alla propria manifestazione, dagli sbirri che garantivano che non ci sarebbero stati sgomberi e dai turni alle porte delle scuole per evitare gli estranei.
E non si pensi che studenti e professori non possano lottare insieme. Solo che in un contesto simile, che non viene messo minimamente in discussione, i ruoli rimangono quelli di professore-studente. Ovvero si rimane in un rapporto paternalistico, nel migliore dei casi, se non in un vero e proprio rapporto gerarchico e autoritario, con tutto ciò che ne consegue …
Senza dubbio siamo stati semplicistici nel trarre delle conclusioni e abbastanza banali nel fare un discorso di causa-effetto, ma la sensazione che la situazione ha trasmesso è stata questa.
Tant’è che i vari cortei, nonostante i numeri che gli vanno riconosciuti – per le svariate motivazioni che abbiamo enunciato – non hanno saputo esprimere gran parte del loro potenziale. Anzi, vi è stato un indietreggiamento di pratiche conflittuali tra il primo corteo e quello della settimana seguente. Comprensibile d’altronde, vista la canea mediatica che si era alzata.
Ma le possibilità vi sono tutte e vanno scoperte subito al di fuori delle rivendicazioni scolastiche. Perché, ne siamo certi, del ddl Aprea agli studenti non è che frega poi un cazzo, attanagliati come sono dai problemi, ben più contingenti, che sentono sulla propria pelle. E le possibilità sono subito fuori dal concesso: nelle occupazioni che si prendono, nella condivisione delle vite autogestite, nel mettere in discussione la struttura che ci domina. Le possibilità ci danno la gioia di sperimentare le nostre esistenze, e dare qualità alle nostre vite.
Il mero calcolo numerico invece, la quantità, serve solo per quelli che vogliono gestire le masse, quelli che vogliono dominare. Quelli, tanto per capirci, contro cui anche molti studenti protestano nelle strade.
Commenti recenti