Il 7 gennaio cinque ragazzi del teramano sono stati condannati in primo grado a sei anni di reclusione più 60mila euro di risarcimento, per gli scontri di Roma a piazza San Giovanni del 15 ottobre del 2011. Ovviamente il primo impulso che ci è venuto è stato quello solidale, quello di esprimere solidarietà ai ragazzi condannati. È evidente che la volontà dello Stato è stata quella di condannare un capro espiatorio di quella giornata di rivolta. È altrettanto evidente che gli scontri di piazza San Giovanni sono avvenuti perché la polizia ha, in qualche modo, risposto agli attacchi che stavano avvenendo o erano avvenuti nelle vie prossime alla piazza. Assodato quindi che sia lo Stato che la polizia svolgono il loro ruolo di nemici dichiarati, in ogni caso, degli sfruttati, non ci resta che pensare come poter affrontare situazioni che ci vedono sotto il torchio, come nel caso di un processo.
Innanzi tutto sottolineiamo il fatto che quando lo Stato processa un suo nemico, lo fa anche in base alla forza che questo suo oppositore ha. Le carceri infatti sono piene di persone che non hanno voce, che a volte non sanno bene neanche il motivo della loro reclusione, che non hanno forza sociale. Questo breve preambolo ci permette di chiarire che una difesa, in un processo, non è solo giuridica, ma anche e soprattutto politica e sociale. A sua volta, la difesa può tramutarsi in attacco, si può passare dalla ricerca di giustificazioni alla ricerca di consenso attorno a certe pratiche da rivendicare. Questo vuol dire cercare di coinvolgere politicamente “fette” della società nel procedimento penale che lo Stato impone agli sfruttati. E lo si fa, come detto, per aumentare la propria forza, la forza di chi sta sotto la pressa, per cercare di resistere maggiormente o di rispondere all’ingranaggio.
In pratica, ciò si traduce in diversi modi di fare. Uno è quello di coinvolgere la cosiddetta società civile, puntare su un sentimento d’indignazione che dovrebbe allargare il suo peso politico fin dentro alcuni rami delle istituzioni. Questo modo di fare però ha i suoi limiti evidenti che, molto spesso, combaciano con l’argomento in questione. Nel senso che la società civile ha interesse e senso fin dove l’argomento è qualcosa che ha a che fare con la democrazia, con l’indignazione, con, in qualche modo, il politicamente corretto. Quando si esce da tali recinti la società civile non ha peso, ma non avrebbe neanche senso e finanche interesse. Anzi sarebbe quasi in contraddizione. Quando, tanto per capirci, un blindato degli sbirri viene incendiato, la società civile non ha alcun interesse a mettersi in simili contesti politici, a meno che non voglia difendere alcune persone, su presupposti d’innocenza.
Ma qui stiamo ragionando in termini politici, su come un processo può essere funzionale ed avere un valore per la lotta. Discutere l’aspetto innocente-colpevole, oltre che riportare il discorso sull’aspetto tecnico, ne ridimensiona la potenzialità politica e conflittuale.
Apriamo una parentesi a questo punto, a scanso di equivoci: queste righe sono delle semplici letture delle situazioni e quindi non presuppongono nessuna risposta già fatta, né tantomeno presuppongono dei giudizi.
Chiarito ciò, riprendiamo il nostro discorso parlando di un altro modo di affrontare politicamente una situazione processuale. Quest’altro modo presuppone la rivendicazione politica, tenendo ovviamente in considerazione l’aspetto tecnico, per cui si è portati alla gogna dallo Stato. Questo passaggio presuppone di aggregare una forza attorno a scelte, situazioni, azioni, di cui si rivendica il valore e il potenziale conflittuale. Questo passaggio permette di instradare il dibattito e le future azioni, non più verso la semplice indignazione (come può essere cercando consenso nella società civile), ma verso la rabbia, lo scontro, l’opposizione sociale, il conflitto. Ed in ciò poter trovare, costruire ed avere una propria forza con cui opporsi allo Stato, anche nelle situazioni processuali.
Quest’altra modalità presuppone però una costanza di attività, con determinati presupposti, sul territorio.
Una costanza che, ahimè, manca. (Non ci riferiamo al caso specifico; il nostro è un discorso generale). Anzi, molto spesso, l’interesse generale dei movimenti di lotta si focalizza su alcune situazioni solo in casi, come questo purtroppo, di condanne. Neanche fossimo dei mezzi d’informazione statale!
E chi dovesse capitare sotto il torchio processuale, come dovrebbe sentirsi nel momento in cui subisce il processo come una qualcosa di privato, senza un movimento che lo difende e lo sostiene?
Isolato e vittima di una situazione più grande di lui. Così si sentirebbe! Invece di sentirsi parte di un qualcosa che mina alle fondamenta questo esistente marcio. Invece di sentirsi nel giusto!
Ce ne sarebbero tante da dire. Una banalità su tutte è ad esempio la dimostrazione del ruolo della magistratura. Ad essa spetta solo il ruolo di guardiano degli interessi dei potenti ed il compito di condannare chiunque si ribelli, individualmente o collettivamente. E questo ruolo i giudici lo ricoprono in ogni momento ed in ogni modo, anche quando si travestono d’arancione, di rosso e via dicendo. Questa banalità può servire ad evidenziare il paradosso in cui si trovano molti sinistri, nel momento in cui ammiccano a questi giudici vestiti di panni arancioni o rossi.
I giudici fanno il loro ruolo, così come lo fanno gli sbirri, così come lo fa lo Stato stesso in ogni situazione.
Spetta a noi fare il nostro, che è altro da tutto ciò. E va costruito quotidianamente, nei rapporti tra sfruttati, nell’affermazione delle nostre idee, negli avanzamenti delle pratiche conflittuali. E va costruito anche per poterci difendere, oltre che, ovviamente, per poter attaccare.
Chiudiamo queste righe, così come le abbiamo iniziate: salutando con un abbraccio fraterno i cinque ragazzi teramani condannati.
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