8 marzo, festa della donna. Dicono.
E la ricorrenza si ripete ogni anno, per questo brevissimo periodo dell’anno!, col suo carico di retorica, luoghi comuni, vittimismo e spettacolo. Una ricorrenza che avrebbe ben altre radici, liberatorie, conflittuali, dignitose, socialiste, rispetto alla triste messa in scena cui ogni anno siamo costretti ad assistere. Se partissimo da tale presupposto potremmo parlare per ore, criticando il presente parlando delle sue origini, parlando della sua storia. Lo potremmo fare con l’8 marzo, così come potremmo farlo col primo maggio e quant’altre ricorrenze segnate sui calendari col sangue degli sfruttati in lotta.
Ma criticare il presente parlando del suo passato, non ci sembra una cosa molto efficace e, in fin dei conti, non sembra neanche qualcosa di strettamente confacente con la critica stessa. Se per critica intendiamo, riduttivamente, l’analizzare un determinato fatto, una determinata situazione, in un determinato contesto. Beh, non sembra troppo confacente con la critica, perché analizzare il presente, contrapponendolo al suo stesso passato, è fuor di contesto; si analizzerebbe qualcosa quindi decontestualizzandola. E ciò ci allontana da scoprirne le contraddizioni e le intime, varie, verità.
Dopo questa breve digressione, riprendiamo il nostro discorso, dal nostro presente. Parlavamo della festa della donna di cui in questi giorni si fa un gran parlare. Se ne parla, se ne straparla ovviamente, e qua e là ci si lancia in buoni propositi e in istanze rivendicative. Queste rivendicazioni sono le più disparate ma tutte, o la gran parte di esse (parliamo di ciò che esce dal mainstream), fanno la voce grossa sul fatto che le donne debbano avere più spazio in questa società. E quando parlano di “avere più spazio in questa società” ci parlano, e ce lo dicono nei vari convegni organizzati un po’ dappertutto in questi giorni, di avere maggior spazio nelle istituzioni, nelle aziende, nei luoghi del potere.
Ritornando ad un po’ di storia, viene un po’ di riso amaro se andiamo a rileggere le parole di un Congresso di inizio ‘900, gli albori dell’attuale festa, in cui si chiariva che la lotta per i diritti delle donne non doveva mai essere portata avanti “alleandosi con le femministe borghesi che reclamavano il diritto di suffragio”. Ed era ben chiaro che le donne, le quali allora lottavano, lo facevano perché avevano un’idea altra di società ed affermavano certe parole perché, per loro, partecipare all’oppressione non voleva dire liberarsene! Si consideravano semplicemente, esse stesse, soggetti del cambiamento così come lo erano altri milioni di sfruttati.
Ma questa è storia, un semplice fotogramma, ma pur sempre storia. E come abbiamo detto con essa non vogliamo fare la critica all’attuale festa. Ma di certo può semplificarci il ragionamento sul contradditorio che anima il nostro presente.
Il nostro 8 marzo (nostro: del nostro tempo) è infatti semplicemente l’ennesima merce spettacolarizzata servita ai cittadini a mo’ di festa. E fin qui ricalca tutte le feste che le istituzioni non si stancano di propinarci a cadenza costante durante l’anno per rabbonirci. In più, questa festa della donna (questa: della grande comunicazione di massa) ha tanto l’aria di essere il richiamo di chi, nella società della prevaricazione, vuole un ruolo tra i prevaricatori.
Ma come, si parte dall’emancipazione e si arriva al dominare?
Si parla di non subire e si arriva a parlare di comandare?
Si rivendicano diritti e poi si vuol imporre doveri?
Non si vuol essere più schiavi e si vuol diventare padroni?
Per questo critichiamo questa festa della donna: per le sue contraddizioni, per le sue antitesi. Ma la critichiamo soprattutto per il suo voler far diventare, in tutto e per tutto, la donna ad immagine e somiglianza di colui che l’ha sempre dominata.
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