I giorni scorsi, in un paio di frazioni di Isola del Gran Sasso, nell’entroterra teramano, son comparse diverse scritte contro i migranti, i centri di accoglienza, chi li gestisce e chi, politicamente, li sostiene. La vicenda ha avuto un grande eco e, forse, tanto clamore, giova più agli estensori di quei messaggi, che non allo sdegno per quel che è avvenuto. Tante volte, infatti, le lamentele continue (soprattutto da un punto di vista mediatico), corrono il rischio di avere l’effetto opposto, rispetto alle intenzioni di chi le fa. Un po’ come tutte le volte che ci si lamenta delle aggressioni fasciste, si passa per vittime (il che può essere anche vero), ma in un meccanismo comunicativo non si fa altro che rinvigorire le file dei nostri nemici, della loro veemenza (o presunta tale), della loro forza (o presunta tale).
Ritornando alle scritte ad Isola quindi, tutta la ridondanza e risonanza che hanno avuto, rischia di essere controproducente per chi il o i problemi vuole affrontarli seriamente e rischia di incentivare qualunque coglione che, con qualche scarabocchio da mentecatto, può uscire dall’anonimato della provincia. E purtroppo, come ad esempio abbiamo visto con l’incendio della palazzina che doveva ospitare i migranti a Colli del Tronto, in alcuni casi non si tratta solo di scarabocchi.
Questi avvenimenti sono di una gravità immane, sono il sintomo delle barbarie che viviamo, ma vanno affrontati bene, sapendo quel che si ha di fronte, senza sbraitare al vento o, peggio, su qualche giornale.
Le scritte che son state fatte l’altra notte ad Isola avevano errori grammaticali, svastiche fatte al contrario ed altri errori marchiani su cui si son concentrate le attenzioni e gli scherni di molti che, a buon cuore, queste cose non le sopportano.
Diciamoci la verità: non è un problema di grammatica!
Non ci dobbiamo banalizzare, né noi né i discorsi che facciamo, su questa dialettica borghese per cui, da bravi professorini, sottolineiamo gli errori rossi e gli errori blu. Questa visione, tra l’altro, è una delle cause che sta portando alle avanzate del fascismo e del razzismo: il distacco, sempre maggiore, che si ha dal reale sentire popolare. E quando si parla di “sentire popolare” non se ne parla in termini positivi o negativi, se ne parla in termini oggettivi, come dati di fatto, come realtà.
Deridere chi ha fatto le scritte ad Isola l’altra notte perché ha commesso errori grammaticali, è un po’ come deridere i nostri nonni (di cui tanto parliamo) che salirono sui monti, fucile in spalla a combattere il fascismo perchè sapevano solo parlare dialetto. La differenza infatti, non la fa la dizione o la correttezza lessicale, ma quel che si sta dicendo e quel che si sta facendo. E la differenza tra i due esempi citati (che può sembrare azzardato metterli in parallelo) è che ad Isola l’altra notte si parlava di barbarie, mentre sui monti dei nostri nonni si parlava di libertà… in qualunque modo lo si dica!
Ciò detto, bisogna rendersi conto di due cose essenziali: che il modello di integrazione attuato dagli stati occidentali genera questi conflitti e che le scritte dell’altra sera sono il sintomo di un sentore diffuso.
Sul primo aspetto il discorso sarebbe abbastanza lungo e complesso, ma cerchiamo di semplificarlo il più possibile e di “ridurlo” ad alcuni punti essenziali. Gli stati occidentali, da secoli ormai, depredano una parte del mondo e nell’assetto attuale solo grazie ai furti ed alle violenze che compiono su altre popolazioni, possono mantenere il regime capitalistico in cui sono immersi, in ragione della manodopera da sfruttare e delle materie prime da depauperare. In relazione a questa oppressione centinaia di migliaia di persone cercano, dai loro paesi di origine, di raggiungere i paesi del bengodi, che altro non sono che i loro sfruttatori. Un siffatto capitalismo, per funzionare in termini oliati, ha bisogno di una “pacificazione interna”, ed a quest’ultima risponde la repressione (a carico di chiunque si ribelli, italiano o migrante che sia) ed un modello che chiamano “accoglienza”.
Su quest’ultimo aspetto ci dobbiamo concentrare per capire quel che non funziona.
Gli stati occidentali (l’Europa perlomeno) dicono di accogliere coloro i quali scappano dalla miseria che gli stessi Stati “accoglienti” contribuiscono a creare. E questa “accoglienza”, oltre ad essere un lungo ed estenuante calvario per i migranti, in attesa di un fatidico pezzo di carta, si traduce con “integrazione”. Ovvero quello di essere un buon cittadino, servizievole nei confronti dello Stato. E così via, a tagliare l’erba delle aiuole comunali, a raccogliere rifiuti, a svolgere volontariato vario…. A diventare in poche parole, quel che gli Stati vogliono: degli schiavi. Integrazione diventa quindi sinonimo di schiavitù ai dettami statali.
Ma vi siete mai chiesti, ad esempio, perché un ragazzo che subisce guerre (anche a causa dei “nostri” Stati), che sente la fame, vede morire i suoi cari, rischia la vita e, se ha la fortuna di arrivare qui, raccogliere la merda di una collettività totalmente indifferente ed egoista, non dovrebbe odiarci?
Vi siete mai chiesti se noi, gaudenti occidentali, persi nelle nostre mille cazzate, a questi ragazzi non stiamo terribilmente sulle palle?
E non venite a dirci che non c’entriamo niente o che ci possiamo fare, perché le nostre vite sono funzionali e complici del sistema che abbiamo descritto.
E qui, d’altro canto, s’inserisce l’altro punto che avevamo posto: che le scritte dell’altra sera ad Isola siano sintomo di un sentore diffuso. Diciamoci la verità, quali sono i discorsi che si sentono nei bar o nelle migliori famiglie? Forse non si arriva a parlare di “gas” o “fuoco”, come scritto sui muri del paese teramano, ma la sostanza è quella. Ed è ciò che deve maggiormente far preoccupare. Ma questo meccanismo che si va generando è logica conseguenza dell’altro punto di cui parlavamo prima. Vi è un malessere diffuso, sia che siano italiani a viverlo, sia che siano migranti. Ed a tale malessere si può rispondere in vari modi. O indirizzando la rabbia verso i responsabili o verso altri sfruttati come noi, com’è quello che vogliono farci fare e come è avvenuto ad Isola l’altra sera.
Prima, quando parlavamo della complicità che abbiamo, nello sfruttamento che i “nostri” Stati compiono in giro per il mondo, dicevamo una verità parziale. Perché, se così non fosse, non daremo possibilità di cambiamento e lasceremo il fianco a sfruttatori vari. L’affermazione è infatti parziale, perché, se da un lato è vero che ne siamo complici qualora ne partecipiamo, è altrettanto vero che non ne siamo diretti responsabili e, se vogliamo, possiamo non esserne complici, se non l’accettiamo e ci ribelliamo.
In quest’ottica si può affrontare, con dei ragionamenti e delle proposte pratiche, anche il razzismo dilagante che continua sempre più a prender corpo.
E come?
Riconoscendo nel migrante un compagno, o un potenziale tale, che per sentirsi accettato non deve fare lo schiavetto ad una collettività in cui, noi stessi, non ci riconosciamo, in quanto fondata sulla sopraffazione ed il sopruso. Sapendo, con onestà, che quegli uomini e quelle donne che vengono da oltre il mediterraneo, quando si mettono in gioco per lottare, rischiano ben più di chi è nato qua. Avere la voglia di fare discorsi altri, avere la forza di mettere in campo pratiche che indichino chi sono i veri nemici. Saper parlare coi molti, riconoscerne i malesseri e gli asti e chiarirne le cause. Far capire che chi ci opprime sono gli stessi personaggi, sia che sei un migrante che uno sfruttato nato qua. Chiarire le reali responsabilità, costruire percorsi che, nella pratica, creino solidarietà, complicità e conflitto.
Facile a dirsi, ben più difficile da fare. Certo! Ma solo se cambieremo le nostre ottiche sapremo realmente parlare sia con chi viene da altri paesi, sia con chi è nato e cresciuto qua. In caso contrario sarà sempre più difficile mettere un argine alle barbarie che avanzano e non sarà più, ahinoi, un problema di hai con l’ H
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