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LETTERA DI UN EX OPERAIO DI BUSSI

Caro Carmine,
scusami se uso il tuo spazio per un intervento ampio. Ampio e gravoso.
Diciamo che provo a riesumare la nostra mitica “bacheca”. Ma si, quel rettangolo di compensato e reticella che un tempo, sotto il portico di Figurij, calamitava curiosita’ e apprensioni, compiacimenti e furori del popolo politicante. Ricordi?
Ecco, mi sembra di rivivere quella sensazione di inquietudine tra la voglia di alimentare il dibattito con un contributo di riflessioni personali e il timore di innescare ulteriori, fastidiose polemiche. Ma tant’e’ !
La settimana scorsa, Giovedi’ santo, una mia amica in partenza per un week end pasquale tutto abruzzese, mi chiama al telefono e mi fa: “…di’, sara’ mica pericoloso passare dalle tue parti ?”. Potenza dei mass media. Anche lei raggiunta dall’eco di allarmi che rimbalzano perfino sul “web”.
“…Bomba ecologica “, “…scandalo a livello europeo ! “, “…la discarica della vergogna.”, “…luce sinistra sulla storia della fabbrica!”.
Ora, quella mia amica vive in una valle del bresciano. Il suo disorientamento e’ largamente comprensibile.
Molto meno lo e’ il coro di stupori indignati e trasecolati che si alza dalle nostre parti.
Tutti possono cadere dalle nuvole, tranne noi. E per una ragione semplicissima. Perché’ noi abbiamo visto, abbiamo ascoltato, abbiamo respirato. Perché’ noi siamo stati testimoni. E forse anche complici.
La discarica della vergogna, quel deposito di centinaia di migliaia di tonnellate di rifiuti tossici sparsi tra la ferrovia e il Pescara, non ha niente di abusivo. Essa e’ semplicemente la discarica della “nostra” fabbrica.
Quando negli anni sessanta Bussi divenne l’Eldorado d’Abruzzo. Quando qualche migliaio di trasfertisti diedero uno scossone all’asfittica economia di tutto un territorio, avvenne semplicemente che la vecchia fabbrica, ormai obsoleta e prossima alla chiusura, fu radicalmente ristrutturata. Demolita e ricostruita.
Un cantiere permanente. Polveroso e maleodorante. Ruspe, escavatori, martelli pneumatici. E un via-vai incessante. Camion dopo camion. Carico, scarico e ritorno.
E dove andavano quei camion? Gia’, dove andavano.
Andavano dove i nostri contadini avevano ceduto le loro proprietà’ alla Montedison che ne aveva fatto incetta. Con le buone, con i pochi che non avevano a che fare con la fabbrica, in maniera piu’ sbrigativa con i tanti che lavoravano o avevano un parente a lavorare li dentro.
Cosi’ capito’ che a nord dell’Yprite, più’ in la’ del vecchio campo di tiro al volo, l’avanzata dovette arrestarsi davanti all’ostinazione di un emigrante che aveva riversato i suoi sudori sudafricani in una velleitaria piantagione di pere.
A sud, invece, oltre la stazione, via libera. Tutto regolare. Nessuna protesta.
La verità’ e’ che allora, se si escludono le sconcezze estetiche di materassi, lavatrici e vecchi televisori scaricati nottetempo fuori porta, era ignoto perfino il concetto di discarica abusiva.
Ognuno si arrangiava come poteva. Fatto salvo esclusivamente il diritto di proprietà’ dei suoli. E la Montedison che aveva i soldi e la forza di persuasione, i suoli li comprava e ci scaricava quello che voleva. Punto.
Quanto poi ai rifiuti tossici, beh, qui entra in gioco una specificita’ che e’ parte costituente del nostro DNA.
Oggi e’ tutto un evocare formule inquietanti e veleni letali. Tetracloruro di carbonio, esacloroetano, pentaclorobutadiene, triclorobenzeni, idrocarburi paraffinici e via terrorizzando.
Allora il discrimine era uno solo: puzza, non puzza.
Il mercurio, per esempio, non puzzava. Costituì’ a lungo un gioco, un passatempo.
Perfino un piccolo business. Provo a rivangare nella memoria.
Quelli della mia generazione di Bussi Officine ricorderanno di aver giocato ai “cercatori”. D’estate, nell’afa di certi pomeriggi, si percorreva il fiume dai rifugi antiaerei fin verso la miniera di lignite. Si andava alla ricerca dei sassi piu’ grossi.
A sollevarli, spesso si scovava il mercurio. A goccioline, a placche instabili e oscillanti. L’abilita’ stava nel raccogliere tutto nel palmo della mano senza farselo scappare. Piu’ tardi, all’eta’ delle prime Giubek clandestine, la necessita’ aguzzo’ l’ingegno.
Cosi’ si andava direttamente alla discarica dell’Yprite a raccogliere la sabbia dell’elettrolisi e poi, come nel Klondike, si passava qualche ora ad agitare una bacinella afilo di corrente. La sabbia andava via e il mercurio restava sul fondo. Raccolto in una bottiglia di gassosa erano una quindicina di chili. Un bel gruzzolo. Ci voleva perizia, pazienza e anche un po’ di temerarieta’. Si,
perche’ a un certo punto entrava in gioco l’acido. L’acido nitrico che doveva depurare il mercurio.
S’alzava una nuvola rossastra e guai a stare sottovento. Un pomeriggio di voria un ragazzo sardo, che arrotondava il bilancio familiare, non fece in tempo a spostarsi e ci lascio’ le penne. Da quel giorno piantarono i cartelli di divieto e ogni tanto passava
un guardiano a controllare.
A questo punto suppongo che aleggi comprensibilmente una domanda: ma da dove cavolo veniva tutto quel mercurio?
Arrivava dritto dalla fabbrica. Da un reparto chiamato, appunto, Sala Mercurio.
Accadeva che, quando ripulivano le vasche elettrolitiche, tutta quella fanghiglia d’avanzo finiva alla discarica.
Da li’ poi le piogge facevano il resto. Tutto alla luce del sole.
Si doveva impedire, protestare, denunciare? chi doveva farlo? Quelli che al mattino andavano a guadagnarsi il pane magari proprio alla Sala Mercurio?
A Bussi Officine operavano stabilmente le forze dell’ordine. Una caserma dei Carabinieri e una della Guardia di Finanza.
Toccava a loro? O forse toccava ai sindacati? Ma quali? gli iscritti alla CGIL che finivano nei reparti confino a spalare i mucchi di carbone o quelli che prendevano cinquemila lire in premio per l’iscrizione alla CISL?
Una volta l’anno, a Santa Barbara, a Bussi Officine passavano gerarchi, prefetti, questori e notabili pescaresi con signore al seguito. Passava anche il Vescovo a dire messa. Alla fine intascava il suo assegno, mangiava due pasticcini, arrivederci e grazie! Certo, a Bussi c’era pur sempre un’amministrazione rossa. Ma dai comunisti allora, presi com’erano dalle lotte per il pane e il lavoro, nessuno si sognava di pretendere anche la lotta alle discariche. E poi, diciamola tutta, tra il capoluogo e la frazione c’era un abisso di differenza. Neanche tre chilometri, due mondi separati.
Quelli di Bussi Officine avevano la casa, l’acqua e la corrente. Tutto gratis. Poi parlavano pulito e di scioperi, manco a dirlo.
Erano chiamati i “signori di Bussi Officine”. Una cosa meta’ tra l’invidia e lo scherno.
Perciò’, tutto quello che avveniva laggiù’, sotto quel pezzo di cielo, in quel tratto di fiume, in mezzo a quel budello di montagne, era tranquillamente ignorato. Volevano stare nella puzza? Cavoli loro. Dei signori di Bussi Officine, appunto.
Ricordo i fatti del ‘54. Accadde che una mattina di gennaio fuoriuscirono da una cisterna 28 tonnellate di cloro. Due morti e centinaia di intossicati. Compresi noi che quella mattina guardavamo avanzare la nuvola gialla dalla scuola. Uno shock incancellabile. Ma soprattutto l’angoscia dei giorni dopo. Il senso dell’abbandono. Della solitudine. Quella tosse stizzosa e insistente sembro’ quasi un castigo per chi aveva scelto di vivere nel paese dei signori.
Nessuna manifestazione, niente clamori. Giusto qualche svolazzo retorico sulla stampa per la giovane ed eroica maestra e l’arrivo di un sottosegretario per l’intitolazione di una scuola elementare.
Di risarcimenti, poi, neanche a parlarne.
Dopo anni di estenuanti diatribe giudiziarie, beccarono qualche soldo tre vigili del fuoco, il maresciallo dei carabinieri e i parenti della maestra Lola.A tutti gli altri, figli, fratelli e mogli dei dipendenti, una mancia avvilente.
Mia nonna, per esempio. Enfisema polmonare. Un’invalidita’ che di li’ a qualche anno l’avrebbe portata alla morte.
107 mila lire prendere o lasciare. Quelli erano i tempi. Cosi’ andavano le cose.
Una ventina d’anni dopo mi ricordai di quelle ferite su un palco imbandierato a Piazza Commercio.
Era il maggio 1970. Elezioni amministrative.
Ero un giovane candidato della lista “Falce e martello”. Giovane e universitario, con un impetuoso seguito tra gli studenti. Praticamente un fiore all’occhiello.
Parlavo prima di Mario Spallone, mitico deputato comunista. Mi tremavano le ginocchia. Stringevo tra le mani pagine e pagine di appunti. Non mi servirono a niente. La foga mi prese la mano. Rigurgitarono, come un fiume in piena, sciagure, sfruttamenti, umiliazioni, cariche dei celerini, e poi i morti intossicati, i minorati, gli espulsi, i perseguitati politici.
Insomma tutto il calderone di intransigenti faziosità’ fermentate sulla mia prima e ribollente presa di coscienza politica.
Alla fine un’acclamazione entusiasta. Ma li’, nelle prime file, dove si accalcavano i giovani, gli studenti. Piu’ indietro un applauso di circostanza. Ai margini quasi un imbarazzo.
Il giorno dopo mia madre, impenitente nostalgica e fieramente anticomunista, mi apostrofo’ con aria canzonatoria: ” Bravo, proprio bravo! alla bottega stavano dicendo che col tuo discorso di ieri sera a “Falce e martello” gli farai perdere almeno trecento voti.” Perdemmo per 26 voti. La prima volta dal dopoguerra. Una disfatta epocale.
Mi sono spesso interrogato su quel vaticinio. Tendo ad escludere di aver determinato quell’esito infausto. Ma una cosa e’ certa.
Negli anni della lunga militanza, conoscendo nel profondo il cuore e la mente degli operai di Bussi, ho captato il senso profondo di quelle parole.
E’ passato più’ di un secolo dal primo fischio della sirena. Dietro quei cancelli si sono succedute quattro o cinque generazioni. Le ha accomunate un indecifrabile sentimento di odio-amore.
Sono stati pagati pesanti pedaggi in termini di salute e dignità’ personale. E’ stata pero’ scongiurata l’umiliazione piu’ insopportabile. La disoccupazione.
Una contropartita che ha giustificato tutto.
Persino la rimozione di quanto fossero nocivi, e a volte letali, i prodotti di quella fabbrica.
Mi vengono in mente certi diverbi infervorati con Ottorino, falegname e galantuomo. Coriaceo, saccente e amabile fascistone di casa nostra. Tema: Mussolini e i crimini di guerra.
Beh, potevi sbattere la testa contro il muro, ma non riuscivi minimamente a fargli ammettere le nostre atrocità’ in Abissinia.
Tenere presente che quelle discussioni si accendevano di norma al Ponte. Come dire un chilometro scarso in linea d’aria dai relitti di quell’Yprite dove i bussesi e centinaia di sventurati montanari abruzzesi avevano sputato sangue a confezionare bombe per la guerra di Etiopia.
Del resto l’Yprite e’ stato sempre un enorme tabu’ e non solo per Bussi.
Qualche giorno fa ho letto sulla stampa accenni esitanti alla natura di quegli impianti.
Un continuo ricorso a condizionali e a perifrasi dubitative.
Anni fa, una suggestiva e documentatissima ricostruzione televisiva di Angelo Del Boca, categoria sull’impiego dell’Yprite nella
guerra d’Africa, glissava sulla provenienza. Per giunta, nei giorni successivi si sbracciarono a smentirlo gli stati maggiori, i
governanti dell’epoca, i soloni della storiografia ufficiale.
Ma Cristo!, venite a Bussi.
Parlate con qualche vedova da Yprite.
Fatevi raccontare di quando, per liberarsi di qualche sbirro nella fabbrica militarizzata, gli spennellavano di Yprite la sella della bicicletta.
Gia’, perché’ l’Yprite non puzzava. Cosi’ ha fatto perdere le sue tracce. E chissà’ che nei paraggi o in qualche caverna di San Cosimo, a Pratola, non ne sia ancora sepolta una buona scorta. Magari in buona compagnia. Che so, Fosgene, Disfogene, Ioduro di Benzile e via elencando tutto un repertorio di termini che nel lessico bussese sono stati sempre molto familiari.
Ecco, la familiarita’. Direi che la consuetudine con una certa terminologia ha depotenziato nel tempo, e a livello di coscienza collettiva, la pericolosita’ reale di certe sostanze.
Del resto che impressione volete che facesse un rimasuglio tossico sepolto sotto mucchi di terriccio, ad uno che al fondo dei polmoni, dei reni, del fegato, della propria carne viva, conservava per tutta la vita, fino alla morte, residui di cloro, di piombo o i mercurio?
Ecco da dove nasce quella noncuranza, quella tiepidezza nella denuncia, quella sorta di omerta’ ambientale che emerge dagli atteggiamenti piu’ diffusi tra la gente. E’ pur vero che all’inizio degli anni novanta a Bussi divampo’ la battaglia della Turbogas.
Una battaglia con tutti i crismi dell’ambientalismo e dai fragorosi risvolti mediatici. Ma gli “enneoics”, si sa, a differenza del cloro volavano alti e, portati dal vento, rischiavano di ricadere proprio sul paese. Ad ogni buon conto a infiammare la sommossa trovavi maestre, bottegai, impiegati comunali, professionisti, casalinghe, studenti e perdigiorno. Operai: poco o niente.
Dal che si intuisce l’esito. Turbogas in funzione, tessuto sociale lacerato e contaminato per sempre dalle tossine di quello psicodramma.
Adesso si torna alla ribalta.
Bussi: una bomba dall’altissimo potenziale di morte. Una Chernobyl ai piedi del Gran Sasso e della Maiella.
Allarme e sdegno legittimi. Anche se un po’ tardivi.
Ma si sa, non e’ mai troppo tardi per tramutare un problema in una opportunità’.
Morale: il sistema affaristico-imprenditoriale che ha creato il problema adesso intravede la possibilità’ di guadagnare
risolvendolo.
Basta pero’ con le meschinerie della colpevolizzazione di massa.
Bussi ha già’ dato.
Il fardello della rimozione e’ parte della nostra identità’, della nostra storia.
E’ stato metabolizzato e neutralizzato in decenni di correità’ oggettiva e di sostanziale innocenza.
L’innocenza di chi ha pagato il prezzo della colpa eventuale, con un tributo abnorme di sacrifici personali e collettivi.

Brescia, 16.04.07
Pino Greco

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