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Una voce

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Qualche giorno fa un uomo di 54 anni si è dato fuoco fuori il cortile della Stella Maris, un ex colonia marina, ora in abbandono, a Montesilvano. Ci potremmo fermare qui. Tanto è lo sgomento per questo avvenimento drammatico che, il semplice raccontarlo può dar seguito al silenzio. Ad un silenzio che atterrisce e che può essere l’unica risposta quando si viene a sapere che qualcuno ha compiuto un simile gesto. Perché ognuno della propria vita fa quel che crede, solo che morire bruciati, è un pensiero così orribile e straziante che rimane difficile pensare che una persona proprio quello volesse, dalla propria di vita.

L’uomo che è morto qualche giorno fa era un tunisino, non un imprenditore sobbarcato dai debiti che si uccide, a cui molti programmi televisivi danno voce. A l’uomo morto a Montesilvano, difficilmente daranno voce, se non in un trafiletto di qualche giornale locale, nella sezione cronaca. Quell’uomo, a quanto dicono le chiacchiere di paese, era destinatario di un decreto di espulsione. Veniva da un paese in cui, quattro anni fa, un altro uomo si diede fuoco per protestare contro la polizia, ed il suo gesto generò un moto di rivolta in tutto il paese. Qua da noi, nella democrazia occidentale, l’uomo morto a Montesilvano, al massimo romperà l’indifferenza del sistema mediatico per qualche minuto. Sarà dato in pasto a qualche sociologo, a qualche politico di sinistra o a qualche sciacallo razzista. Diventerà oggetto d’indagine di qualche giornalista, che sulle tragedie si sfrega le mani. L’uomo morto l’altro giorno, a quanto dicono, aveva fatto il pescatore sia a Pescara che a Giulianova; poi niente, sopravvivenza per tirare a campare, lavoretti quando capitano e il sapersi arrangiare per sopravvivere… solo che, se sei immigrato, vuol dire il doppio dei rischi, il doppio dei sacrifici, il doppio delle condanne. Se ti va bene. E, se non hai uno straccio di lavoro, hai problemi con il permesso di soggiorno, anche se stai in questo paese da trent’anni. E ti danno un decreto di espulsione, come successo all’uomo che è morto l’altro giorno. Nel paese di bengodi vogliono mettere la selezione all’ingresso, come le discoteche per bravi consumatori. Nel paese di bengodi chi non è gradito, è escluso, recluso, istigato al suicidio. E così avviene che, in questa tragedia c’è chi, da onesto cittadino, si lamenta che la struttura in cui l’uomo si è tolto la vita versa in uno stato di abbandono; c’è chi da bravo giornalista, sottolinea il fatto di come l’edificio sia frequentato da balordi; c’è chi, da merda fascista, sottolinea di come l’uomo non era italiano ed era destinatario di un decreto di espulsione; e c’è anche chi, da ipocrita di sinistra, viene a parlare dei drammi che vivono gli immigrati, quando sono i primi ad istituirne centri di reclusione e leggi discriminatorie.

Noi, nel nostro sgomento, volevamo semplicemente dare voce al gesto di un uomo. Ad un uomo di nome Rachid Romdhane, così si chiamava l’uomo che si è dato fuoco l’altro giorno. Un nome che a stento si è saputo, visto che per l’opinione pubblica, basta sapere che si tratta di un immigrato, per cui non importa chi sia, che nome abbia. È semplicemente un immigrato che si è ammazzato, e non importa che abbia voce in questa società. Una voce che non ha risalto, perché viene da un atto drammatico compiuto da una persona qualunque. Anzi, se possibile – e purtroppo è possibile – con ancor meno voce, perché compiuto da un immigrato.
Noi, non volevamo far cadere nel silenzio il gesto drammatico di quest’uomo. E riusciremo a toglierci lo sgomento di dosso, solo nel momento in cui, la morte di Rachid, e purtroppo di tanti altri come lui, genererà moti di rivolta come sono avvenuti al di là del Mediterraneo e quando le fiamme colpiranno i responsabili di tutte queste morti.

Posted in critica radicale.