Il 2 gennaio 2005 muore il compagno Xosé Tarrio. Xosé Tarrío González era nato nel 1968 a La Coruña, in Spagna. A 11 anni è entrato in collegio per motivi familiari, ma è riuscito a fuggire diverse volte. A 14 anni per dei piccoli furti è stato condannato alla permanenza in un riformatorio, dal quale è evaso in diverse occasioni. Fino ai 16 è rimasto in un riformatorio speciale su ordine del giudice. A 19 è entrato in carcere per scontare un piccola condanna. Da allora è stato costretto a subire le più inaudite vessazioni nelle sezioni speciali delle carceri spagnole, le cui bestiali condizioni hanno condotto Tarrío ad accumulare condanne su condanne per un totale di 71 anni di carcere. Il compagno è stato uno dei primi a sperimentare sulla propria pelle le torture fisiche e psicologiche applicate nei Ficheros de Internos de Especial Seguimientos (F.I.E.S. – Schedari dei Reclusi di Trattamento Speciale), sezioni speciali all’interno delle carceri speciali, istituite dal partito socialista spagnolo. E’ stato liberato nel maggio del 2003 dopo aver trascorso 16 anni di carcere, dei quali oltre 10 in isolamento nel regime FIES di primo grado. Nuovamente arrestato nel settembre del 2003, nonché ferito, ha dovuto subire una nuova sessione di pestaggi all’ingresso. Nel giugno del 2004 la sua salute è peggiorata sia per l’Aids giunto alla fase terminale che per un infarto cerebrale che i medici del carcere diagnosticarono come un’influenza. Molto tardi, solo il 28 giugno, è stato ricoverato in ospedale. Qui lo dimisero subito, ma furono costretti a ricoverarlo di nuovo l’8 luglio per la paralisi della metà del corpo, perdita della memoria e della capacità di parlare. Da sottolineare che i secondini hanno continuato a torturarlo anche in queste condizioni, mantenendolo ammanettato al letto dell’ospedale. Solo il 17 agosto gli è stata concessa la libertà condizionale, ma da allora è sempre rimasto in ospedale.
In coma profondo dal 20 ottobre, è morto il 2 gennaio 2005.
E’ morto di carcere!
Su di lui Claudio Lavazza ad introduzione dell’edizione italiana di “Huye, hombre, huye – Diario di un prigioniero F.I.E.S.” ha scritto:
“Ho conosciuto Xosé Tarrío agli inizi del ’97 nel supercarcere di Topas, Salamanca. Mi avevano mandato lì per un “careo”, cioè per un confronto con una serie di testimoni di quattro rapine avvenute in quella città anni prima.
Di Xosé mi avevano parlato molti compagni che lo conoscevano personalmente, ed altri che ne avevano solo sentito parlare: tutti concordavano sulla sua fede anarchica e sulla sua volontà di lottare contro il sistema penitenziario.
Mi parlarono di lui pochi giorni dopo il mio arrivo in un altro carcere di massima sicurezza, quello in cui attualmente mi trovo: Jaén, modulo FIES.*
Quando arrivai a Topas, verso le ore 12 di un lunedì, due compagni che non conoscevo vennero a bussare alla porta metallica della cella in cui mi trovavo, l’ultima del corridoio, l’ultima di quel braccio FIES.
Aprirono lo sportello dove si passa il vitto e da quel buco iniziammo a comunicare. In una scomoda posizione parlammo del più e del meno: chi ero, da dove venivo, se avevo fame, se avevo dei vestiti pesanti per sopportare il freddo intenso di quella regione.
Uno dei due compagni era Santiago Izquierdo Trancho, un protagonista di questo libro.
Dopo un paio di minuti apparve Xosé, ci guardammo fissi negli occhi: non l’avevo mai visto prima, ma sapevo che era “lui”, sentivo che era lui.
Gli dissi: «Tu sei un anarchico, il tuo sguardo non lascia dubbi».
Era vero, era proprio lui.
Parlammo a lungo di noi, dei nostri ideali, del libro che stava scrivendo, dell’importanza di comunicare al mondo libero gli orrori del sistema penitenziario, creato appositamente per i ribelli che non vogliono adattarsi all’umiliante esistenza nella società; ribelli che, spinti da una chiara convinzione “politica” o in quanto refrattari, sono decisi a conservare la propria dignità contro un sistema che li obbliga alla schiavitù e all’umiliazione di un lavoro.
Nel libro il lettore troverà una vera esperienza di vita che appartiene al nostro presente, troverà (come vi ho trovato io) il coraggio per continuare con più forza nelle nostre idee, capirà l’importanza del carcere quale terreno di lotta, conoscerà la qualità degli individui disposti a non sottomettersi.
Oggi il carcere è quello che è, è quello di sempre, dove si commettono le più grandi ingiustizie, le più raffinate torture fisiche e psicologiche che la perversa mente umana possa immaginare. Il carcere è il castigo per chi non accetta le regole del gioco dei ricchi e potenti.
In questa “dittatura democratica” la pena di morte fisica è stata abolita, ma subito rimpiazzata da quella psicologica.
Con l’isolamento e l’inevitabile angoscia che produce vogliono toglierci la nostra personalità, vogliono ridurci a degli esseri senza identità.
In Xosé ho trovato qualcosa che mi appartiene e che appartiene a tutti coloro che hanno già trovato una risposta ai seguenti interrogativi: «Si può vivere tranquilli senza lottare per la libertà?»; «Possono coesistere libertà ed oppressione?».
Domande, queste, valide sia per chi è libero, sia per chi nella libertà è prigioniero di se stesso.
Il carcere fa paura perché non lo si conosce a sufficienza; più un nemico è sconosciuto, più è difficile combatterlo.
Quando ti chiudono la porta alle spalle, tutto il peso della solitudine ti cade addosso; loro lo sanno bene e per questo ci lasciano soli per mesi in celle fredde e umide.
Come avrei voluto che queste parole i compagni Baleno e Soledad le avessero ascoltate in tempo, che avessero capito in tempo che quanto ti rinchiudono in isolamento non bisogna pensare al presente, perché tale situazione non durerà in eterno; al contrario, da quella solitudine si può trovare la forza per sopravvivere.
Xosé, con la sua esperienza, ci insegna l’aspetto più importante, non perdere mai la speranza.
Noi detenuti, in determinate condizioni, non abbiamo niente da perdere; mentre chi ci tortura può perdere tutto, anche la vita.
Dalle sue parole capiremo che l’uscita dall’isolamento cui siamo sottoposti potete determinarla voi persone libere, con la vostra solidarietà, le vostre lettere, il vostro ricordo e il vostro amore.”
Jaén, estate 1999
Nel libro “Huye hombre huye, Diario di un prigioniero F.I.E.S.” Xosè scrive: “Si avvertiva un clima prossimo alla violenza, perciò ricevemmo la visita di un ispettore della Direzione Generale delle istituzioni penitenziarie. Da ogni modulo vennero scelti due detenuti per dialogare ed esporre i problemi di tutti gli altri. Io ed un altro compagno andammo come portavoce del modulo 1. Il dialogo si svolse in un ufficio dell’infermeria, il mio compagno entrò per primo mentre io aspettavo scortato da un paio di secondini. Concluso il colloquio con il mio compagno, entrai nell’ufficio.
Vi era un uomo ben vestito e scrupolosamente pettinato che mi sorrideva apertamente con un sorriso di facciata. Pretendeva creare un clima di fiducia tra noi. Mi salutò:
– Salve, come va?
Mi sedetti di fronte a lui e gli risposi, cortese:
– Salve.
– Lei è Xosé Tarrìo, vero? – domandò
consultando una lista di nomi, che aveva annotatati su un foglio.
– Sì, vengo dal modulo uno.
– Bene, bene. Sono venuto per vedere se avete qualcosa da dirmi. Qui è morto uno di voi per una pugnalata e noi vogliamo sradicare questo ed altri aspetti del carcere di Daroca, che è sempre stato molto problematico. Come si vive qui?
– Male, rispondendo all’ultima domanda. Per il resto, la violenza esiste e continuerà sempre ad esistere finché le carceri manterranno atteggiamenti repressivi così selvaggi e insisteranno nel tenere tutti i detenuti in uno stesso luogo, senza prendere in considerazione altri aspetti umani, perlomeno quelli logici.
– Quali aspetti? – mi interruppe.
– I detenuti devono scontare la condanna nelle loro rispettive comunità, per evitare conflitti campanilistici e l’abbrutimento che in tutti noi provoca lo sradicamento familiare. D’altra parte non ci sono laboratori, né altre attività. La gente trascorre tutta l’ora d’aria nel patio, senz’altro intrattenimento che camminare. Trascorriamo ventidue ore su ventiquattro rinchiusi in cella, e così tutti i giorni della settimana, del mese e dell’anno. Ci vengono proibite le visite vis a vis, mentre ci portiamo sulle spalle anni di separazione dalla famiglia o senza avvicinare una donna. Ciò genera violenza, signore, in uomini che per la maggior parte sono condannati a lunghi. anni di carcere.
Feci una pausa per prendere respiro e riordinare i pensieri. Poi continuai:
– Noi detenuti di primo grado siamo già conflittuali, per questo ci rinchiudono qui; cosa si spera di ottenere se poi ci sottopongono ad un regime degradante e se ci opprimono nei bisogni fondamentali? Qui non funziona nemmeno l’infermeria. Vi sono i detenuti malati di AIDS in moduli senza una concreta assistenza medica, quella di questa prigione è pessima. Per ottenere una semplice palestra abbiamo dovuto distruggere il carcere intero, il che dimostra che a volte questa violenza è efficace e, se non lo è, perlomeno è l’unica strada che ci lasciano. Pestano noi detenuti per meschinità e questo, signore, non aiuta. Io non dico che voi fomentate la violenza di proposito, ma non riuscite a vedere la realtà dalle vostre comode sedie ed a causa dell’inesperienza umana. Noi detenuti sì che vediamo tutto questo insieme di cose che ci abbrutiscono giorno per giorno, fino a renderci crudeli e perfino insensibili.
– Diamine! Lei non lascia una via d’uscita. Vede le cose da un’ottica molto negativa, Tarrìo. Qualcosa di buono lo faremo, no? – mi interruppe di nuovo, mentre la sua mano destra giocava con una bic.
Risposi cinicamente:
– Guardi, ignoro il motivo per cui è venuto qui, ma non sarò io a fare l’apologia del terrorismo carcerario che voi utilizzate per punirci. Nel 1980 c’erano ventimila detenuti nelle carceri spagnole, oggi ne avete quarantamila. Sinceramente, credo che siete degli incompetenti per non aver saputo risolvere un problema sociale del quale siete stati incaricati. Da quanti anni vi portate dietro gli stessi problemi? Per un detenuto che riabilitate a metà, create cinque nuovi delinquenti; avete convertito il carcere in un affare, non in una soluzione.
Presi di nuovo respiro e proseguii emozionato:
– Il carcere in sé è violenza, signore. È la scuola del crimine per i delinquenti nati come me. Io e i miei compagni costituiamo il carnaio del quale si alimentano le vostre carceri, i vostri stipendi e i vostri grandi affari. Non ci si può aspettare nulla da chi non ha altro proposito se non quello di curare i propri interessi. Buongiorno! – conclusi, abbandonando l’ufficio.
Ancora un po’ e mi sarei gettato su di lui.
No, quelli non avrebbero cambiato niente. Le istituzioni penitenziarie inviavano gli ispettori ogni volta che succedeva qualcosa di grave, o si presumeva che potesse succedere; allora cercavano di placare gli animi con false promesse che mai avrebbero mantenuto. Quei colloqui erano una pura routine, burocrazia per riempire delle scartoffie, giustificazione del lavoro di coloro che dirigevano da Madrid l’istituzione repressiva. Quelle carte erano lavallo con cui l’amministrazione si presentava dinanzi alla società, mostrando la sua preoccupazione per il regime carcerario. No, nulla poteva cambiare quel colloquio, come nulla avevano cambiato le centinaia di denunce che inviavamo ai tribunali di sorveglianza penitenziaria.
La soluzione dei problemi all’interno delle carceri passava irrimediabilmente attraverso l’unificazione delle lotte di tutta la popolazione reclusa: dai sequestri alle sommosse, dalle rivolte alle proteste. Solo con una violenza maggiore si poteva porre fine ai regimi distruttivi. C’era bisogno di una lotta armata all’interno delle strutture carcerarie e di un sollevamento popolare, le cui rivendicazioni avrebbero interessato i mezzi di comunicazione della società, assieme al grido di terrore degli aguzzini convertiti in ostaggi. Bisognava estendere la lotta a tutte le carceri, iniziando da quelle a regime speciale, passando poi per i regimi chiusi e terminando con quelli di secondo grado.”
EN TU MEMORIA XOSE’ TARRIO
PORQUE LA DIGNIDAD
NO ENTIENDE DE MUROS
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